La sentenza di Cassazione n. 13252 del 27 giugno 2016 ha ad oggetto la vicenda di una signora di nazionalità peruviana - e quindi extracomunitaria - la quale ha ricevuto un provvedimento di espulsione da attuarsi entro un periodo coincidente con un decorso postoperatorio di un certa importanza.
In primo grado il Giudice di Pace di Roma aveva ritenuto corretto il provvedimento in questione, in quanto la donna non aveva inviato alcuna richiesta apposita, non avendo, in effetti, mai richiesto il permesso di soggiorno in Italia.
La sentenza di primo grado è stata, però, ribaltata dalla Cassazione, per le ragioni qui di seguito.
Anzitutto è, però, necessario, fare una breve disamina degli strumenti di cui la persona immigrata può usufruire in caso di necessità di cure mediche.
La Legge italiana prevede la possibilità di richiedere il permesso di soggiorno per cure mediche quando lo straniero abbia necessità di essere sottoposto ad una determinata operazione o trattamento terapeutico in Italia. Tale richiesta andrebbe fatta seguendo uno specifico iter previsto dalla Legge -da attivare prima dell’arrivo in Italia- che va dall’esibizione di una dichiarazione della struttura italiana di disponibilità a svolgere la prestazione, al versamento a favore della struttura di almeno il 30% del costo presunto della prestazione sanitaria, all’esibizione di una dichiarazione di ospitalità nel nostro Paese.
Sussiste anche la possibilità che l’esigenza di cure mediche si presenti quando la persona è già in Italia. In tal caso, qualora lo straniero non sia in possesso di un permesso di soggiorno o questo sia scaduto, si applica il c.d. “codice STP” (Straniero Temporaneamente Presente), strumento predisposto al fine di garantire l’assistenza sanitaria anche a favore dei cittadini extracomunitari irregolari.
Vi sono, tuttavia, dei casi in cui sussistono dubbi sulla obbligatorietà o meno di espellere il cittadino irregolarmente soggiornante in Italia. In questa zona grigia può ricondursi anche la fattispecie in oggetto: essendo già stata operata, la Signora destinataria della sentenza di Cassazione in oggetto doveva seguire unicamente le cure e le istruzioni legate al decorso post operatorio, sebbene questo, stando alla sentenza di Cassazione, fosse molto “rigido” e pertanto fosse da considerarsi tra quelle “prestazioni essenziali per la vita”.
Considerando la tutela della salute un bene primario di ogni persona, da tutelare in quanto diritto fondamentale dell’uomo, la Cassazione n. 13252/2016, seguendo un orientamento già consolidato nel tempo (tra tutte la Cassazione n. 1690/2005 fino alla sentenza a Sezioni Unite n. 14500/2013), ha riconosciuto “la garanzia del diritto fondamentale alla salute del cittadino straniero che comunque si trovi nel territorio nazionale, impedendo di conseguenza l’espulsione nei confronti di colui che dall’immediata esecuzione del provvedimento potrebbe subire un irreparabile pregiudizio”.
La Cassazione ha quindi annullato il provvedimento di espulsione comminato nei confronti della signora.
Tuttavia rimangono aperte alcune domande, fondamentali per capire quali saranno gli effetti di questa sentenza, ulteriore conferma dell’orientamento giurisprudenziale che mette in primo piano il diritto alla salute.
In primo luogo l’annullamento dell’ordine di lasciare il territorio non ha comunque come conseguenza il rilascio del permesso di soggiorno in favore dello straniero affetto da patologia grave: per la persona immigrata viene semplicemente ripristinata la situazione precedente, pertanto la stessa dovrà attivarsi al fine di ottenere il permesso di soggiorno in base alle disposizioni previste dalla normativa vigente.
In secondo luogo la Giurisprudenza sopra riportata ha sempre riguardato situazioni in cui la patologia da cui era affetta la persona irregolarmente soggiornante in Italia era di tipo fisico, pertanto sinora è difficile fare analogie con il caso sopra esposto e la fragilità mentale. Ci si chiede quale potrebbe essere il destino di un clandestino con patologie psichiatriche e quali possano essere gli strumenti per tutelare la persona in questi casi.
È già nota l’emissione di provvedimenti del Giudice Tutelare volti a conferire all’Amministratore di Sostegno il potere di attivarsi al fine di impugnare il provvedimento di espulsione (cfr. Tribunale di Modena - decreto 20 luglio 2009 Giudice Tutelare Stanzani), appare tuttavia ancora lunga la strada che possa portare ad un’equiparazione del diritto alle cure anche per le persone che presentino una fragilità di tipo mentale.
A cura dell’avv. Davide Bloise, avvocato in Milano,
Consigliere Associazione InCerchio
L’INPS ha comunicato con propria Circolare gli importi aggiornati al 2015 delle provvidenze economiche (pensioni, indennità di accompagnamento etc) correlate al riconoscimento di invalidità civile, effettuato dalle ASL.
Riteniamo utile, per aggiornamento dei familiari e dei volontari amministratori di sostegno di persone con fragilità con riconoscimento di invalidità civile, dare comunicazione degli importi al 2015 delle PROVVIDENZE ECONOMICHE erogate dall'INPS a seconda della tipologia di minorazione e grado dell'invalidità stessa:
- Pensione invalidi civili totali: 279,75 € mensili, per tredici mensilità, erogazione subordinata a limite di reddito personale lordo annuo di 16.532,10 €
- Indennità accompagnamento invalidi civili totali: 508,55 € per dodici mensilità(NESSUN limite di reddito)
- Assegno mensile invalidi civili parziali: 279,75 €, per 13 mensilità (limite di reddito, sempre personale lordo annuo: 4.805,19)
- Indennità mensile frequenza minori: 279,75 € per i mesi di frequenza a centro scolastico o riabilitativo, (limite di reddito sempre p.l.a: 4.805,19)
- Pensione sordi 279,75 € (limite di reddito pers .lordo annuo: 16.532,10)
- Indennità accompagnamento ciechi civili assoluti :880,70 € (NESSUN limite di reddito)
- Indennità comunicazione sordi: 253,26 (NESSUN limite di reddito)
- Pensione ciechi civili assoluti: 302,53 € (limite di reddito: 16.532,10)
- Pensione ciechi civili assoluti (se ricoverati): 279,75 € (limite di reddito: 16.532,10)
- Pensione ciechi civili parziali: 279,75 € (limite di reddito: 16.532,10)
L’opportunità di applicare l’istituto dell’Amministrazione di Sostegno anche all’ambito della dipendenza da sostanze alcoliche è una questione da tempo oggetto di dibattito in sede dottrinale e giurisprudenziale, ove si discute sul grado di incapacità dei soggetti dipendenti da sostanze e sulla misura più idonea a garantirne la migliore tutela, senza peraltro pervenire ad una soluzione univoca.
Il decreto del Giudice Giuseppe Buffone di Varese commentato dall’Avv. Matteo Preda mette in luce come l’applicazione dell’istituto dell’Amministrazione di Sostegno nel caso di discussione, sia stata una scelta non solo volta alla tutela degli interessi economici, ma anche e soprattutto al supporto ed alla agevolazione del percorso di recupero del soggetto fragile.
Il Tribunale di Varese ha recentemente avuto modo di interrogarsi circa l'opportunità di applicare l'istituto dell'Amministrazione di Sostegno anche all'ambito della dipendenza da sostanze alcoliche.
Si tratta di una questione da tempo oggetto di dibattito in sede dottrinale e giurisprudenziale, ove si discute sul grado di incapacità dei soggetti dipendenti da sostanze e sulla misura più idonea a garantirne la migliore tutela, senza peraltro pervenire ad una soluzione univoca. La risposta infatti non può prescindere da un'accurata analisi della fattispecie concreta e dall'individuazione degli interessi in gioco.
Ciò che vi è di certo è il riconoscimento dell'"importanza per le persone con disabilità della loro autonomia ed indipendenza individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte" (1).
Entrando nel merito del caso di specie, il Giudice Tutelare del Tribunale di Varese, Dott. Giuseppe Buffone, ha ritenuto opportuna la nomina di un amministratore di sostegno (nella fattispecie, in particolare, un Avvocato) per una donna affetta da alcolismo, non solo al fine di curarne gli interessi economici, ma anche e soprattutto per agevolarne un percorso di recupero.
La pronuncia del Tribunale di Varese ricalca il sentiero tracciato da precedenti statuizioni (2), prima fra tutte il decreto del Tribunale di Catanzaro del 9 aprile 2009 che ha espressamente recepito i principi sanciti nella Convenzione di New York del 2006 sui diritti delle persone con disabilità.
Il Giudice Tutelare del predetto Tribunale, Dott.ssa Giovanna Gioia, ha infatti dichiarato di ritenere applicabile in via diretta la tutela prevista dalla Convenzione per le "persone con disabilità" anche alle "persone prive in tutto o in parte di autonomia, di cui al titolo XII del libro I del codice civile", fra le quali il beneficiario dell'Amministrazione di Sostegno. In particolare nella Convenzione è espressamente citato (Art. 12 comma IV) che "gli Stati devono assicurare che le misure relative all'esercizio della capacità giuridica rispettino i diritti, la volontà e le preferenze della persona, che siano scevre da ogni conflitto di interesse e da ogni influenza indebita, che siano proporzionate e adatte alle condizioni della persona, che siano applicate per il più breve tempo possibile e siano soggette a periodica revisione da parte di un autorità competente, indipendente ed imparziale o di un organo giudiziario."
È utile a questo proposito ricordare che per "persone con disabilità" si intendono "coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con altri" (Art. 1 comma II, Conv. New York).
E ancora, secondo un'autorevole dottrina (3) sono da ritenere oggetto di Amministrazione di Sostegno i seguenti casi di disagio psichico:
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indebolimento delle facoltà intellettive, che non si traduca in una vera e propria malattia, sempre che non si tratti di un mero fatto episodico ma di uno stato d'alterazione o anomalia psichica, avente un carattere di stabilità;
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infermità mentale di tipo temporaneo;
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infermità mentale di tipo abituale, non grave al punto da rendere la persona totalmente inidonea alla cura dei propri interessi;
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infermità mentale abituale grave, allorché l'entità e la composizione del patrimonio della persona interessata non facciano apparire come indifferibile la misura dell'interdizione giudiziale.
In virtù di tale classificazione, la dipendenza da alcol pare pertanto potersi qualificare in termini di disturbo mentale: essa infatti è causa di un'alterazione delle capacità cognitive che, avendo un'incidenza diretta sulla vita dell'assuntore, gli impedisce di far fronte autonomamente alle proprie necessità.
Occorre ulteriormente evidenziare la circostanza che il Giudice Tutelare di Varese ha collegato l'adozione della misura dell'Amministrazione di Sostegno al consenso della beneficiaria, rendendola così partecipe della decisione e consentendo così l'esercizio della sua libertà di autodeterminazione.
La figura dell'Amministratore di Sostegno risponde infatti alla necessità di conciliare esigenze di tutela del beneficiario, dei suoi interessi economici e dell'integrità del suo nucleo familiare con il rispetto della sua volontà, conformemente al dettato costituzionale (4).
La stessa Corte di Cassazione individua nell'istituto in oggetto misura idonea a fornire "a chi si trovi nella impossibilità anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire" (Cass. Civ., Sez. I, 12 giugno 2006, n.13584).
Ciò non significa, come sottolineato nel decreto in esame, che il consenso del beneficiario ne costituisca conditio sine qua non, bensì che il fine ultimo delle misure di amministrazione non è quello di essere "subite" dal beneficiario ma da questi "fruite" a suo vantaggio e interesse (Trib. Catanzaro, decreto del 9 aprile 2009). Questa caratteristica rappresenta peraltro uno dei tratti distintivi dell'Amministrazione di Sostegno rispetto alle misure più invasive dell'inabilitazione e dell'interdizione, cui va preferita qualora risulti idonea ad offrire adeguata tutela al soggetto debole.
Compito del giudice è dunque quello di individuare l'istituto che oltre a garantire la protezione appropriata alla fattispecie, assicuri per quanto possibile al beneficiario l'esercizio della sua capacità di agire (Corte Cost., sentenza 9 dicembre 2005, n.440).
In quest'ottica, i rimedi dell'inabilitazione e dell'interdizione devono essere considerati residuali ed eventuali: infatti la maggior flessibilità ed agilità della procedura dell'Amministrazione di Sostegno ne rende più funzionale l'applicazione alle esigenze del caso concreto, non potendosi individuare un criterio distintivo di carattere quantitativo, legato al grado di infermità mentale del soggetto.
Quanto alla specifica ipotesi di uso abituale di sostanze alcoliche, la linea di confine fra gli istituti dell'Amministrazione di Sostegno e dell'inabilitazione risulta poco chiara, spettando al Giudice Tutelare l'ultima parola sul punto.
Rimane comunque il fatto che la dottrina prevalente ritiene l'Amministrazione di Sostegno preferibile anche per soggetti che presentino i requisiti per procedere all'inabilitazione, e ciò proprio in ragione di una maggior adattabilità alle particolari esigenze del singolo beneficiario che la rendono funzionale a garantirne i diritti e le possibilità di iniziativa nell'ambito di un progetto condiviso.
(1) Convenzione sui diritti delle persone con disabilità sottoscritta a New York il 13 dicembre 2006 e ratificata dall'Italia per effetto degli artt. 1 e 2 della legge n.18 del 3 marzo 2009
(2) Vedi anche Trib. Venezia, Sez. Distaccata San Donà di Piave, decreto del 15 marzo 2010
(3) S. Delle Monache, Prime note sull'amministrazione di sostegno: profili di diritto sostanziale, in Nuova giur. civ. commentata, 2004, II, pp. 37-38
(4) Art. 32 comma 2 Cost.: Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Una delle questioni affrontate dalla Corte di Cassazione in questa recente sentenza commentata dall’Avv. Marina Verzoni, della Commissione Legale di OLTRE NOI..LA VITA, riguarda una situazione ricorrente presso gli uffici del Giudice Tutelare: allorquando tra i parenti in lizza per la carica di amministratore di sostegno vi siano dissapori, tensioni o veri e propri contrasti (approdati o meno che siano nelle aule giudiziarie), chi è bene nominare amministratore di sostegno? La domanda si pone altresì nei casi in cui la conflittualità parentale non sia accompagnata dalla candidatura dei parenti stessi o di taluno di essi alle funzioni vicariali.
La norma del codice civile che regola la scelta dell'amministratore di sostegno è l'art. 408.
Tale norma stabilisce che sia il giudice tutelare a scegliere chi nominare amministratore di sostegno, qualora manchi la designazione da parte dello stesso interessato o sussistano gravi motivi.
Tale norma prevede che il criterio fondamentale che deve seguire il giudice tutelare nella scelta dell'amministratore di sostegno è esclusivamente quello della cura e degli interessi della persona beneficiata (così: Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 26 settembre 2011, n. 19596).
Nella scelta il giudice deve preferire, ove possibile, il coniuge non separato, la persona stabilmente convivente, il padre, la madre, il figlio o il fratello o la sorella, il parente entro il quarto grado o il soggetto designato dal genitore superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata autenticata.
L'elenco delle persone indicate dall'art. 408 c.c. deve essere interpretato nel senso che non contiene alcun ordine preferenziale né un carattere esclusivo.
La giurisprudenza ha già avuto modo di stabilire che la designazione dell'amministratore di sostegno è un atto del giudice tutelare, il quale ben può disattendere l'indicazione formale del beneficiario (giudice tutelare Tribunale Varese 28 Giugno 2012).
Anche l'atto di designazione dell'amministratore di sostegno da parte del beneficiario non è dunque vincolante per il giudice tutelare, il quale avrà solo il dovere di muovere da quella designazione per poi, eventualmente, disattenderla indicandone i gravi motivi come previsto dalla norma in questione.
Il giudice tutelare ha quindi un margine di discrezionalità nella scelta: come detto deve tener conto esclusivamente della cura e degli interessi del beneficiario e, se ricorrono gravi motivi, può designare una persona diversa da quelle indicate.
Quali sono quindi i casi in cui è preferibile la nomina di un amministratore di sostegno "terzo"? La giurisprudenza ha stabilito che in caso di accesi conflitti tra i parenti è preferibile la nomina di un amministratore di sostegno esterno al nucleo familiare onde evitare che la conflittualità tra i membri della famiglia inibisca il corretto funzionamento della misura di tutela (in tal senso, g.t. Tribunale Varese 28 giugno 2012).
Oltre che nell'eventualità di conflitti, la scelta di un amministratore di sostegno estraneo alla compagine famigliare è avvenuta anche quando il familiare appare troppo preoccupato di garantire una corretta gestione del patrimonio e troppo poco - proporzionalmente - preoccupato della salute psicofisica della persona, troppo poco attento ai suoi bisogni e alle sue aspirazioni (g.t. Tribunale Trieste 19 febbraio 2007).
Ed ancora quando il beneficiario versi in rapporto di dipendenza/sudditanza psicologica nei confronti del familiare o del convivente (g.t. di Trieste; v. decr. 3 febbraio 2007).
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14190 del 5 giugno 2013, ha avuto modo di occuparsi della questione relativa alla opportunità, in alcune circostanze particolari, di nominare quale amministratore di sostegno una persona estranea alla famiglia del beneficiario.
Nel caso specifico, il giudice tutelare aveva ritenuto opportuno il conferimento dell'incarico a persona estranea alla famiglia della beneficiaria, in considerazione dei forti contrasti esistenti tra i suoi parenti. Nel merito erano emerse circostanze che confermavano l'esistenza tra i fratelli della beneficiaria e le loro famiglie di un grave conflitto che impediva ogni forma di collaborazione nell'interesse della donna.
La Cassazione non ha espressamente risolto la questione, in quanto nelle more il giudice tutelare aveva già sostituito l'amministratore di sostegno 'terzo' nominato con il fratello indicato dalla beneficiaria, e le doglianze sono quindi risultate inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse.
Va peraltro detto che pur in assenza di un orientamento della Cassazione, come visto i giudici si determinano nella scelta di un amministratore di sostegno esterno secondo quanto espressamente stabilito dalla norma qui in esame avendo riguardo esclusivamente alla cura e agli interessi del beneficiario, e tenendo opportunamente in considerazione ogni singolo caso concreto.
Risorse:
La ratio dell'istituto dell'amministrazione di sostegno, volta a salvaguardare per quanto possibile l'autodeterminazione della persona e la tutela della sua dignità, nonché ad impedire interventi invasivi della sua vita e della sua attività, determina l'esclusione dell'amministrazione di sostegno nel caso in cui la persona stessa possa provvedere in modo autonomo alla tutela dei suoi interessi e del suo patrimonio. Questo ovviamente anche in caso di avanzata età, anche se è giusto prevedere che l’aiuto di persone di maggiore competenza con gli strumenti del mandato e della rappresentanza. Ancora una volta, dunque, si rende evidente il fatto che l’abito personalizzato costituito dall’AdS, se ben confezionato, è uno strumento più sicuro per la persona fragile, rispetto ad un abito che di volta in volta venga confezionato da parte di terzi.
L'avvocato Cristina Gallizia ci offre l'occasione per seguire passo passo una vicenda che chiarisce come dalle prassi quotidiane sia possibile applicare al meglio l'istituto dell'amministrazione di sostegno. Ecco i fatti e i suoi commenti finali.
Il giudice tutelare di Milano aveva provveduto, nel luglio 2009, alla nomina di un AdS a favore di una persona anziana che si opponeva, a seguito di un ricorso presentato nel 2006 da due cugine della stessa. La persona amministrata rispondeva con un reclamo, ma la Corte d'Appello di Milano, con un decreto del 2010 rigettava il reclamo. A questo punto la persona amministrata ricorreva in Cassazione, senza che altre parti private abbiano svolto attività difensiva.
Interessanti i motivi della sentenza finale della Cassazione che qui riportiamo per esteso.
La sentenza
Con un unico, articolato motivo, la ricorrente lamenta violazione dell'art. 404 c.c., in conformità al principio costituzionale del rispetto dei diritti inviolabili dell'uomo. Si può in linea di principio consentire con le argomentazioni sviluppate in ricorso: la ratio dell'istituto dell'AdS è volta a salvaguardare, per quanto possibile, l'autodeterminazione della persona e la tutela della sua dignità, nonché a impedire interventi invasivi sulla sua vita e la sua attività. L'esclusione, dunque, dell'amministrazione di sostegno, quando l'individuo possa provvedere in modo autonomo alla tutela della sua persona e del suo patrimonio e questo, ovviamente, anche in caso di avanzata età del soggetto e di notevole consistenza del suo patrimonio, con la possibilità di farsi aiutare da persone di maggior competenza, a causa della complessità di gestione, eventualmente con gli strumenti del mandato e della rappresentanza, ma in piena e totale autonomia circa la valutazione se utilizzare o meno tali aiuti, e sulla scelta di questi.
Nella specie, peraltro, pur dando atto nella CTU che la signora era lucida e orientata e allo stato francamente "non circonvertibile", il ricorso tace su alcune circostanze di fatto che indicano alcuni limiti,' cadute intellettive, confusioni ricorrenti. Il giudice a quo infatti si riferisce ad alcune cadute di memoria: la signora dichiarava di essere contitolare di conti con una vicina, ma ciò non rispondeva al vero; era caduta in confusione, non mostrando di conoscere esattamente il rapporto di valore Lira/Euro, riteneva di aver versato al difensore Euro 10.000, mentre risultavano corrisposti Euro 36-000. Lo stesso CTU aveva riscontrato alcune cadute nei calcoli più complessi e aveva consigliato la nomina dell'amministratore per la gestione straordinaria del patrimonio.
Si tratta di valutazioni di fatto, non controllabili in questa sede. In sostanza la ricorrente, al di là delle enunciazioni di principio astrattamente condivisibili, finisce per contestare profili e valutazioni di fatto, presenti nella motivazione del provvedimento impugnato, sorretto da motivazione congrua e non illogica. Va rigettato il motivo, in quanto infondato e, conseguentemente, il ricorso.
Fin qui la sentenza. Ed ecco il parere della nostra consulente legale, avvocato Gallizia.
Con riferimento alla pronuncia della Corte di Cassazione non si può non condividere la scelta ideologica di confermare uno spazio importante all'ADS inteso come istituto a protezione dell'incapace. Dal 2004, infatti, il legislatore ha valorizzato la capacità residua del soggetto a scapito della scelta totalizzante dell'interdizione e dell'inabilitazione, come bene sanno coloro che si occupano di tali misure di protezione e/o di soggetti incapaci. La scelta, come noto, quindi è stata nel senso di rispettare l'autonomia individuale e la capacità che ciascuno, pur in condizioni di disagio psico- fisico, conserva. Nella pronuncia della sentenza in esame (confermativa delle due sentenze di merito che avevano nominato un AdS alla ricorrente che era contraria) si esprime un principio di fondo - che pare condivisibile anche nello stesso istituto dell'Ads, che comunque valorizza le capacità residuali - e cioè che la nomina può non essere indispensabile laddove la parte da proteggere necessiti solo di un intervento limitato cui si possa supplire lasciandogli inalterata la capacità, ma delegandola a terzi attraverso il meccanismo della rappresentanza (ovvero tramite la procura).
Nel caso citato la Corte di Cassazione si trovò a confermare la scelta dei giudici di merito di avere nominato un AdS, cosa di cui la beneficiaria si doleva; ciononostante esprime, come detto, un principio generale in senso contrario, ovvero che, in estrema sintesi, la nomina dell' 'ads non è sempre indispensabile, perché esistono altri strumenti. Ma questa posizione richiede però poi molto equilibrio e buona fede nell'applicazione concreta. Infatti, dove c'è un provvedimento di nomina di AdS vi è una chiara statuizione dell'Ordinamento che limita la capacità in modo preordinato e a vantaggio del beneficiario; dove, invece, seguendo il principio qui esposto, si concluda nel senso di non volere nominare un AdS ma di lasciare la possibilità alla persona di essere aiutato da terzi con deleghe e procure occorre che chi riceve o meglio ancora predispone la procura (es. il notaio o l'avvocato) valuti compiutamente e di volta in volta la capacità di chi la rilascia, per non vanificare il dettato normativo e danneggiare l'incapace medesimo. Quindi, in conclusione, ancora una volta si rende evidente il fatto che l'abito personalizzato costituito dall'AdS, se ben confezionato, sia uno strumento più sicuro per la persona fragile, rispetto ad un abito che di volta in volta venga confezionato da parte di terzi.